Una bella partenza e un (breve) sussulto a metà serata. Finora l’impressione su Sanremo 2014 è che gli ingredienti del menu siano tutti di buona qualità, ma che non si riesca mai a valorizzarli, a miscelarli con equilibrio, a dar loro lo spazio giusto. Com’è possibile che una squadra di autori capitana da personaggi di immensa professionalità come Michele Serra e Francesco Piccolo sia riuscita a partorire un Sanremo così sfiancante, privo di ritmo e di equilibrio, lento come un pachiderma?
Obbligata era la presenza di un nome illustre come Renzo Arbore per omaggiare i sessant’anni della tv pubblica (leit motiv del Sanremo di quest’anno): ma evidentemente nessuno si è chiesto se non fosse quantomeno azzardato affidare in bianco quaranta minuti di show al quasi ottantenne Arbore senza il minimo tentativo di arginamento. E infatti l’ospitata si è risolta in una fiacca sequenza di freddure e canzonette che sembrava non finire mai, affossando la presenza del grande vecchio in un mare di noia anziché valorizzandola come avrebbe meritato
Ed è stato un momento di televisione poco entusiasmante anche il monologo che Luciana Littizzetto ha dedicato alla bellezza dell’imperfezione e della disabilità. Sicuramente è doveroso veicolare certi messaggi, soprattutto dal palcoscenico di uno show che assicura milioni di telespettatori. Ma non con certi toni banali, patetici e intrisi di moralismo sfoderati da una Littizzetto mai così pigra e qualunquista: proprio lei che in tante altre occasioni ha dimostrato di possedere un genuino talento nel coniugare tematiche “nobili” a comicità “bassa”.
E’ stata azzeccata la partenza all’insegna dell’omaggio a Claudio Abbado, dove il maestro Diego Matheuz ha diretto una bella versione dell’ouverture de Le Nozze di Figaro di Mozart, uno di quei brani classici capaci di toccare senza difficoltà le corde del largo pubblico senza cadere nella banalità del motivetto da suoneria. La scelta di ospiti internazionali provenienti dalla scena indie e meno commerciale è stata probabilmente dettata dalle ristrettezze del budget più che da un reale interesse di Fazio, ma di fronte a nomi come Rufus Wainwright e il Damien Rice di ieri (in attesa di Paolo Nutini stasera) ci si può solo levare tanto di cappello.
E poi c’è il sussulto di metà serata, quando un uomo nel pubblico ha interrotto Fazio a suon di urla e per un brevissimo istante ci siamo davvero convinti che sarebbe capitato l’irreparabile: e invece no, era solo una (poco originale) gag accuratamente orchestrata da Fazio solo per poter dire “Visto? Questa era una scenetta preparata, mica i tentati suicidi della prima serata”.
Inutile chiedersi, in tutto questo, che ruolo abbiano i cantanti. In uno show tanto grezzo e squilibrato, le esibizioni canore degli artisti in gara sono solo sporadici intermezzi: ed è meglio stendere un velo pietoso sui giovani, costretti ad esibirsi frettolosamente in tarda notte. La tanto sbandierata “centralità della musica” anche stavolta è andata a farsi benedire, ma soprattutto si è completamente persa quella ventata di novità e di freschezza che l’accoppiata Fazio-Littizzetto era stata capaci di conferire al bel Sanremo dell’anno scorso. Noia e barocchismo, gli eterni compagni del festival, hanno ancora una volta preso il sopravvento.